Ian Tattersall
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Usi della
Coscienza «
Gli
esseri umani hanno discusso all'infinito sulla natura della propria
coscienza, quantunque con risultati incerti. Naturalmente il problema è
che questa qualità è una forma di esperienza interiore. Non deriva dal
mondo esterno, anche se ha a che fare con il modo in cui lo percepiamo. La
nostra coscienza, se vogliamo, è il filtro attraverso cui vediamo ed
interpretiamo l'ambiente attorno a noi; ma essa non esiste nell'ambiente
stesso (che è costituito da tutti gli altri individui della nostra
specie) e quindi non ci fornisce alcun punto di riferimento esterno sul
quale poter concordare. Noi possiamo accordarci sul fatto di avere
una coscienza, ma a causa della sua stessa natura non possiamo definirla
in modo universale. Tuttavia è la caratteristica umana più evidente, ed
è impossibile ignorarla in qualsiasi spiegazione di noi stessi.
Da dove deriva la coscienza? La nostra mente è distinta dal corpo oppure
l'una emerge dall'altro? Questo interrogativo, formulato molto acutamente
da René Descartes ben più di tre secoli or sono, è tuttora al centro di
un vigoroso dibattito. L'introduzione del pensiero evoluzionistico non
fece quasi nulla per porvi fine: Charles Darwin era fermamente convinto
che la coscienza umana fosse univocamente spiegata dall'evoluzione del
cervello per mezzo della selezione naturale, mentre Alfred Russel Wallace
- che in tutti gli altri campi fu un energico sostenitore dell'adattamento
attraverso la selezione naturale - era semplicemente incapace di
immaginare come questo processo avesse potuto dar luogo alla straordinaria
consapevolezza umana. Oggi, anche se i termini del dibattito sono rimasti
essenzialmente gli stessi, mi pare che entrambi questi geniali pensatori
avessero ragione. La coscienza è un prodotto del nostro cervello, il
quale a sua volta è un prodotto dell'evoluzione. Ma le proprietà del
cervello umano sono emergenti, sono il risultato di una serie di
acquisizione casuali (naturalmente basate sull'eccezionale risultato di
una lunga storia evolutiva) le quali possono essere state favorite dalla
selezione naturale solo dopo che il cervello si fu formato. I
meccanismi alla base di queste proprietà emergenti restano fra i più
importanti interrogativi irrisolti della scienza, anche se numerosi filoni
di indagine vengono attualmente seguiti da neurobiologi, psicologi,
filosofi, e altri.
Un approccio oggi popolare al problema della coscienza è quello di
immaginare il nostro cervello come una macchina. In un senso limitato deve
veramente essere tale, perlomeno in quanto non abbiamo motivo di
considerare la coscienza qualcosa di diverso dal prodotto di un processo
che ha luogo all'interno del cervello. E, naturalmente, sono le
somiglianze ereditarie nella meccanica dei nostri cervelli a permettere
agli esseri umani di presupporre di possedere coscienze più o meno
simili, e di avere a che fare gli uni con gli altri su questa base. L'idea
che tutti gli esseri umani normali abbiano coscienze tra loro
confrontabili in pratica è accettabile.
Fin qui tutto bene. Ma nonostante la recente fioritura di tecniche che ci
hanno permesso una conoscenza senza precedenti delle funzioni e
disfunzioni del cervello umano, non sappiamo ancora quali meccanismi
abbiano condotto a ciò che chiamiamo coscienza, anche se le ipotesi
abbondano. In teoria, è possibile costruire un <<cervello>>
artificiale che riproduca il funzionamento di quello umano fino a
includere l'esperienza della coscienza, ma non abbiamo affatto idea di
come ciò possa essere realizzato in pratica. I tentativi di simulare
risposte umane utilizzando il computer - di creare cioè l'<<intelligenza
artificiale>> - si sono perlopiù limitati allo sviluppo di
algoritmi che mimano i risultati di approcci
<<intelligenti>> a particolari problemi, anche se la recente
creazione di <<reti che apprendono>> ha ampliato questa
prospettiva. Alcuni di questi tentativi hanno sortito effetti
sorprendenti, ma il problema essenziale rimane. Anche se arrivassimo al
punto di non distinguere le risposte di un computer perfettamente
<<intelligente>> da quelle di un essere umano dotato di
coscienza (e non dimentichiamo che la varietà delle menti umane è
infinita) non potremmo ancora concludere che il computer stesso possiede
una coscienza del genere a noi familiare. Inversamente, persone per altri
aspetti normali possono eseguire attività complesse in stati di
<<incoscienza>> dovuti a disordini del sonno. Queste attività
hanno talvolta condotto gli interessati in tribunale, ma i verdetti dei
giudici non ci hanno certo aiutati a riconoscere, e ancor meno a definire,
la coscienza: alcuni sonnambuli sono stati giudicati non responsabili di
atti normalmente considerati delittuosi, commessi durante questo stato
ambiguo e poco conosciuto, mentre altri sono stati condannati. Ciò vale
anche per imputati afflitti da disordini mentali di tipo diverso o il cui
cervello era stato in qualche modo danneggiato.
La concezione del cervello come macchina (anche se progettata in modo
imperfetto) continuerà inevitabilmente a occupare filosofi e neurobiologi,
ma finora non ci ha aiutati a capire come il cervello generi la qualità
che chiamiamo coscienza. E' evidente che, sebbene per ceri versi risulti
utile studiarlo come se fosse una macchina, esso non lo è secondo alcuna
definizione comune. Per il momento, dunque, coloro che sono interessati
alla coscienza umana come prodotto dell'evoluzione farebbero meglio a
porsi una domanda differente. Se non sappiamo che cosa la coscienza sia
esattamente, siamo in grado si riflettere proficuamente sulla sua funzione,
o perlomeno sulle possibilità che essa ci fornisce? Ho preso in prestito
il titolo di questa sezione dallo psicologo Nicholas Humphrey, che ha
formulato questa domanda in modo particolarmente elegante. Humphrey è un
darwinista rigoroso, convinto che il cervello umano si sia <<evoluto
perchè, e solo perchè, è indispensabile a qualche funzione
biologicamente utile>>. E mentre dovrebbe essere ormai chiaro che la
mia visione del processo evolutivo è diversa dalla sua (il cervello umano
è comparso per caso, e successivamente è stato favorito dalla selezione
naturale), la domanda di Humphrey centra in pieno il problema affrontato
da tutti coloro che sono interessati all'origine della moderna coscienza
umana. Io mi limiterei a riformularla leggermente: <<Quale aspetto
dei processi mentali della specie che possedeva tale capacità le ha
permesso di trionfare sulle altre specie a essa imparentate, che invece
non la possedevano?>>.
La risposta di Humphrey a questa domanda è collegata alla metafora che
usa per descrivere quella che considera la caratteristica principale della
coscienza umana. Nella sua concezione, la coscienza è determinata da un
<<occhio della mente>>: una proprietà esclusiva della mente
stessa, basata su attributi strutturali o fisiologici non meglio definiti,
che consente al cervello di osservare se stesso al lavoro. Questa abilità
- che possiamo presumere sia temporanemente sospesa nei sonnambuli veri e
propri e assente negli individui con certi tipi di danni cerebrali -
permette ciò che Humphrey definisce lo <<sguardo interiore>>.
Devo ammettere che la metafora di Humphrey è persuasiva, anche se non
abbraccia tutto ciò che secondo il senzo comune potrebbe essere
attribuito alla coscienza. Sono inoltre d'accordo con lui nel concludere
che <<la profondità, la complessità e l'importanza
biologica>> delle relazioni umane interpersonali, che
<<superano di gran lunga quelle di qualsiasi altro animale>>,
sarebbero impossibili senza lo sguardo interiore. In effetti, abbiamo
visto che il doppio inganno degli scimpanzè potrebbe indicare una certa
capacità rudimentale di leggere nella mente degli altri, ma non v'è
dubbio che Humphrey abbia ragione del dire che, nel caso degli esseri
umani, <<senza la capacità di comprendere, prevedere e influenzare
il comportamento dei membri della propria specie, una persona stenterebbe
a sopravvivere da un giorno all'altro>>. In una misura del tutto
senza precedenti, la comprensione delle motivazioni altrui - impossibile
senza una certa comprensione delle proprie - è un ingrediente essenziale
del comportamento sociale umano.
Per un darwinista rigoroso questa osservazione è sufficiente. La
coscienza umana è derivata semplicemente - e inevitabilemente - dal
vantaggio riproduttivo conferito dalla selezione naturale, generazione
dopo generazione, agli individui dotati di una certa capacità sempre
maggiore di guardare dentro se stessi. Ma abbiamo già visto che il
processo evolutivo è di fatto molto più complesso; ed è difficile
capire perchè, se piccoli vantaggi comportamentali erano stati
inesorabilmente amplificati nel tempo secondo questo meccanismo, tra gli
animali altamente sociali come i primati non sarebbe potuta accadere la
stessa cosa in tutte le linee di discendenza. Inoltre non esiste esempio
migliore della storia evolutiva del cervello dei vertebrati per dimostrare
che il cambiamento evolutivo non è semplicemente consistito di graduali
miglioramenti nel corso del tempo. L'evoluzione del cervello non è
proceduta per semplice aggiunta di qualche nuova connessione qua e là,
fino a diventare, dopo eoni, una grande macchina perfettamente oliata.
L'evoluzione opportunistica ha arruolato, in maniera alquanto disordinata,
vecchie parti del cervello per svolgere nuove funzioni, e sono state
aggiunte nuove strutture, mentre alcune delle vecchie sono state ampliate
in modo piuttosto casuale.
Per avere una chiara visione di questo fenomeno dobbiamo capire che per
arrivare dove siamo oggi è stato necessario un processo naturale a vari
livelli. Innanzitutto, a partire da un precursore che possedeva la gamma
di ex-attamenti necessari, comparve il cervello dell'uomo moderno
all'interno di un'antica popolazione locale e per mezzo di modificazioni
che ancora non comprendiamo. In seguito la selezione naturale operò
all'interno di questa popolazione fissando la variante come norma. Poi
intervenne la speciazione che stabilì l'individualità storica della
nuova entità. Infine la nuova specie vinse la competizione con le altre a
essa imparentate, in un processo che - forse per la prima volta poco dopo
la comparsa dell'ominide ancestrale - finì per lasciare sulla scena
un'antica specie ominide: Homo Sapiens. Vista in questo modo, la
piena coscienza umana è solo uno dei risultati di quel processo
routinario e casuale di comparsa e affermazione delle innovazioni che si
verifica nell'evoluzione di tutte le linee.
Tratto da: Tattersall J. Il Cammino dell'Uomo, Garzanti 1998
[pp.170-174]
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