Stephen
Jay Gould
~ L'evoluzione della vita sulla Terra
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Alcuni personaggi
annunciano le loro invenzioni con grande clamore, altri invece compiono
grandi scoperte in tono dimesso, come fece Charles Darwin nel 1859 quando
definì il nuovo meccanismo della causalità evolutiva: "Ho chiamato
questo principio, grazie al quale ogni lieve variazione, se utile, viene
conservata, con il termine di selezione naturale".
La teoria della selezione naturale è un enunciato dalle straordinarie
implicazioni in una veste meravigliosamente semplice, che ha superato
molto bene, per 135 anni, la prova di indagini e verifiche intense e
inesorabili. Fondamentalmente, essa pone il meccanismo del cambiamento
evolutivo al centro di una "lotta" tra organismi per il successo
riproduttivo, il che conduce a un maggiore adattamento delle popolazioni
ad ambienti che via via si modificano. (Lotta è spesso un'espressione
metaforica e non deve essere vista come un combattimento dichiarato e
condotto ad armi spianate. Le strategie per il successo riproduttivo
includono una vasta gamma di attività non bellicose, come un
accoppiamento più precoce e più frequente o una migliore cooperazione
tra i partner nell'allevamento della prole.) Pertanto la selezione
naturale è un principio di adattamento locale, e non di progresso
generale.
Per quanta importanza possa avere questo principio, la selezione naturale
non è la sola causa del cambiamento evolutivo (anzi, in parecchi casi,
può essere messa in ombra da altre forze). E' opportuno sottolineare
questo punto perché normalmente si abusa della teoria evoluzionistica
equiparando la ricerca di una spiegazione biologica di un dato carattere
all'ideazione di scenari, spesso altamente ipotetici per non dire
fantasiosi, che ruotano attorno al valore adattativo del carattere in
questione nel suo ambiente originario (per esempio, l'aggressività umana
si dimostra utile per la caccia; la musica e la religione per rafforzare
la coesione tribale).
Lo stesso Darwin enfatizzò fortemente la natura multifattoriale del
cambiamento evolutivo e mise in guardia dall'affidarsi in modo troppo
esclusivo alla selezione naturale, ponendo la seguente affermazione in
bella evidenza, alla fine dell'introduzione a L'origine delle specie:
"Sono convinto che la selezione naturale sia stato il più
importante, ma non l'unico, fattore di modificazione".
La selezione naturale non è di per sé sufficiente a spiegare il
cambiamento evolutivo per due importanti motivi. In primo luogo vi sono
molte altre cause che influiscono su di esso, particolarmente ai livelli
di organizzazione biologica che sono sia al di sopra sia al di sotto di
quello su cui si è tradizionalmente concentrato Darwin e che riguarda gli
organismi e la loro lotta per conseguire il successo riproduttivo. Al
livello più basso, che è quello della sostituzione delle singole coppie
di basi del DNA, il cambiamento è spesso, di fatto, neutro e quindi
casuale. Ai livelli più alti, che interessano intere specie o faune,
l'equilibrio intermittente (o punteggiato) può produrre tendenze
evolutive mediante una selezione di specie basata sulla velocità di
comparsa e di estinzione di queste ultime, mentre le estinzioni in massa
spazzano via porzioni considerevoli di comunità vegetali e animali per
ragioni che non hanno relazione alcuna con le lotte adattative che le
singole specie intraprendono nei periodi "normali" intercorrenti
tra l'uno e l'altro di questi eventi.
In secondo luogo, e su questo si concentrerà il presente articolo,
benché la teoria della selezione naturale rappresenti un quadro di
riferimento importante per spiegare la storia del cambiamento evolutivo
(nessun aspetto di questa storia può essere in contrasto con una buona
teoria e considerazioni teoriche possono consentire di prevedere certi
aspetti generali del quadro geologico in cui si inserisce la vita), i suoi
principi non devono essere considerati come le cause determinanti
dell'effettivo corso degli eventi evolutivi. È importante insistere su
questo punto in quanto si tratta di un aspetto fondamentale, seppure in
larga parte non ancora compreso, della complessità del mondo. Le catene e
le reti di eventi sono così complesse, così zeppe di elementi casuali e
caotici, così irripetibili nel loro includere una simile moltitudine di
oggetti unici (e interagenti in modo unico), che per esse non possono
valere i modelli standard della semplice previsione e duplicazione.
La storia può essere spiegata, con un rigore soddisfacente se le
testimonianze sono sufficienti, dopo che si è svolta una serie di eventi,
ma non può essere prevista con precisione prima. Pierre-Simon de Laplace
affermò, con il fiducioso determinismo tipico della fine del
XVIII secolo, che sarebbe stato in grado di specificare tutti gli
stati tuturi dell'universo se avesse potuto conoscere la posizione e il
moto di tutte le sue particelle in un qualsiasi momento. La natura della
complessità dell'universo rende però vano questo sogno. La storia
racchiude troppo caos - ossia presenta una dipendenza estremamente
sensibile dalle condizioni iniziali - il che produce esiti notevolmente
divergenti a partire da minuscole e incommensurabili disparità nei punti
di partenza. Inoltre la storia è largamente soggetta alla còntingenza,
nel senso che i risultati attuali non sono determinati direttamente da
leggi immutabili di natura, ma sono plasmati da lunghe catene di stati
antecedenti imprevedibili.
Homo sapiens non comparve sulla Terra, appena un "secondo" fa in
senso geologico, perché la teoria evoluzionistica prevede questo
risultato in base al principio di un progressivo aumento della
complessità del sistema nervoso. La comparsa degli esseri umani fu,
piuttosto, la conseguenza fortuita e contingente di migliaia di eventi
collegati, uno qualsiasi dei quali avrebbe potuto svolgersi in maniera
diversa, dirottando la storia su un percorso altemativo che non avrebbe
condotto all'intelligenza di tipo umano. Per non citare che quattro di
questi eventi, tra i molti possibili, ricorderò che: 1) Se i nostri
fragili e poco appariscenti antenati non fossero stati fra i pochi
sopravvissuti di quella imponente radiazione di animali pluricellulari che
ebbe luogo durante il Cambriano, circa 530 milioni di anni fa, oggi sulla
Terra non esisterebbe alcun
vertebrato. (Solo un appartenente al phylum dei cordati, il genere Pikaia,
è stato trovato tra questi antichissimi fossili. Questo piccolo e
semplice organismo acquatico, che il possesso di una notocorda, o asse di
sostegno dorsale, indica come affine alla nostra stirpe, è uno dei
fossili più rari della formazione degli Argilloscisti di Burgess, che
racchiude la fauna meglio conservata del Cambriano.) 2) Se un piccolo e
poco promettente gruppo di pesci dalle pinne lobate non avesse sviluppato
in queste ultime uno scheletro osseo caratterizzato da un robusto asse
centrale, capace di sostenere il peso dell'animale sulla terraferma, forse
i vertebrati non sarebbero mai diventati terrestri. 3) Se una grande
meteorite non avesse colpito la Terra 65 milioni di anni fa, i dinosauri
sarebbero ancora predominanti e i mammiferi sarebbero rimasti animali
insignificanti (la stessa situazione che era prevalsa nei precedenti 100
milioni di anni). 4) Se, da quattro a due milioni di anni fa, nelle savane
africane che si andavano inaridendo, alcuni primati non avessero acquisito
la postura eretta, la nostra genealogia sarebbe probabilmente terminata in
un gruppo di scimmie antropomorfe che, come gli attuali scimpanzé e
gorilla, sarebbe diventato ecologicamente marginale e probabilmente
destinato all'estinzione, a dispetto di una notevole complessità di
comportamento.
Pertanto, per comprendere gli eventi e gli aspetti generali del corso
della vita, si deve andare oltre i principi della teoria evoluzionistica
per analizzare invece la documentazione paleontologica dell'andamento
contingente della storia della vita sul nostro pianeta, cioè dell'unica
versione che si è realizzata tra i milioni di alternative possibili. Una
simile concezione della storia della vita si contrappone decisamente ai
convenzionali modelli deterministici della scienza occidentale, oltre che
alla radicata tradizione sociale e alla visione antropocentrica
occidentale che considerano l'uomo come l'espressione più elevata della
vita, destinata a sovrintendere al pianeta.
La comunità scientifica può adoperarsi per comprendere la realtà della
natura (come in effetti fa), ma essa è a tal punto immersa nella società
che non può non risentire di tutte quelle che sono le
"certezze" predominanti, per quanto grande sia il suo impegno
nel cercare l'oggettività. Lo stesso Darwin, scrivendo le ultime righe de
L'origine delle specie, espresse convinzioni della società vittoriana
più che affermare una conclusione obiettiva: "Poiché la selezione
naturale agisce soltanto per il vantaggio di ogni essere, col mezzo delle
variazioni utili, tutte le qualità del corpo e della mente tenderanno a
progredire verso la perfezione". (Nell'edizione italiana del 1864,
approvata da Darwin medesimo, da cui traiamo questa citazione, si parla di
"elezione" e non di "selezione".)
Il corso della storia della vita include certamente molti fenomeni
prevedibili in base alle leggi di natura, ma si tratta di aspetti troppo
vasti e generali perché sia possibile utilizzarli per spiegare i
risultati particolari dell'evoluzione: rose, funghi, esseri umani e via
dicendo. Gli organismi si adattano ai principi fisici e trovano in essi i
loro limiti. Per esempio, non sorprende troppo il fatto che, dati i
vincoli della gravità, i vertebrati marini di maggior mole (cioè i
cetacei) siano più grandi dei maggiori animali terrestri (oggi gli
elefanti, in passato i dinosauri), i quali, a loro volta, sono di gran
lunga più voluminosi dei più grandi vertebrati volanti che siano mai
esistiti (gli pterosauri del Mesozoico, oggi estinti).
Leggi ecologiche prevedibili regolano la strutturazione delle comunità
dei viventi sulla base del flusso di energia e di principi termodinamici
(per esempio, il fatto che vi sia una maggiore biomassa sotto forma di
preda che non di predatori). Le tendenze evolutive, una volta in atto,
possono avere una prevedibilità locale (per esempio, la "corsa agli
armamenti", in cui predatori e prede perfezionano armi e difese: una
situazione che Geerat J. Vermeij dell'Università della California a Davis
ha definito "escalation", documentando la robustezza crescente
nel corso del tempo sia delle chele dei granchi sia delle conchiglie dei
gasteropodi, che dei granchi costituiscono la preda). Tuttavia le leggi
della natura non dicono affatto perché esistano
granchi e gasteropodi, perché gli insetti siano gli animali
pluricellulari predominanti e perché le forme più complesse di vita
sulla Terra siano i vertebrati e non grandi ammassi di alghe.
In contrapposizione alla maniera tradizionale di concepire la storia della
vita come un processo di complessità gradualmente crescente e almeno in
buona parte prevedibile, spiccano tre aspetti della documentazione
paleontologica su cui ci baseremo per portare avanti le tesi esposte in
questo articolo: la costanza della complessità modale nel corso della
storia della vita; la concentrazione degli eventi evolutivi più
importanti in brevi esplosioni, intervallate da lunghi periodi di relativa
stabilità; infine, il ruolo delle circostanze esterne, e in primo luogo
delle estinzioni in massa, nello scompigliare l'ordinamento dei tempi
"normali". Questi tre aspetti, associati ai temi più generali
del caos e della contingenza, richiedono un nuovo quadro di riferimento
per concettualizzare e delineare la storia della vita. Questo articolo si
concluderà dunque con alcune proposte per una rappresentazione diversa
dell'evoluzione.
La principale testimonianza paleontologica
sull'origine della vita sottolinea come il suo inizio sia
prevedibile, ma dice ben poco sul suo andamento successivo. La Terra ha
4,6 miliardi di anni, ma le rocce più antiche risalgono a 3,9 miliardi di
anni perché, in epoca precoce nel corso della storia della Terra, la
superficie terrestre si fuse in conseguenza sia del bombardamento da parte
di grandi quantità di frammenti residui della formazione del sistema
solare, sia del calore generato dal decadimento radioattivo di isotopi a
vita breve. Tuttavia queste rocce subirono un metamorfismo così intenso,
per effetto di un successivo riscaldamento e aumento di pressione, da
distruggere i fossili (anche se alcuni scienziati interpretano le
proporzioni dei differenti isotopi del carbonio contenuti in queste rocce
come indizi di produzione organica). Le rocce più antiche rimaste
sufficientemente inalterate da poter conservare cellule fossili (sedimenti
africani e australiani che risalgono a 3,5 miliardi di anni fa) includono
cellule procariote (batteri e cianofite) e stromatoliti (formazioni di
acque marine poco profonde, costituite da sedimenti trattenuti e saldati
da cianofite). Questo ci dice che la vita sulla Terra sorse in epoca
molto antica ed ebbe una evoluzione assai rapida.
Questo fatto sembra di
per sé indicare una inevitabilità, o perlomeno una prevedibilità,
dell'origine della vita a partire dai costituenti chimici presenti
originariamente nell'atmosfera e negli oceani.
Non vi è dubbio che gli organismi più complessi siano comparsi in
successione dopo questo inizio procariotico dapprima cellule dotate di nucleo (eucariote), circa due miliardi di anni
fa, quindi animali pluricellulari, circa 600 milioni di anni fa, con una
"staffetta" della massima complessità dagli invertebrati ai
vertebrati marini e, infine (se vogliamo dare il posto d'onore, secondo
una concezione piuttosto provinciale, all'architettura del sistema
nervoso), ai rettili, ai mammiferi e agli esseri umani. Questa è la
successione convenzionale, rappresentata nei vecchi libri di testo da una
"età degli invertebrati" seguita da una "età dei
pesci", da una "età dei rettili", da una "età dei
mammiferi" e da una "età dell'uomo" (aggiungendo così il
vecchio pregiudizio maschilista a tutti gli altri pregiudizi espressi da
questa sequenza).
Non nego che l'aumento della complessità sia un dato reale, ma sostengo
che il nostro desiderio di vedere la storia della vita come una
progressione e gli esseri umani come organismi destinati al predominio ha
distorto grossolanamente la nostra interpretazione, inducendoci a porre in
posizione privilegiata un fenomeno di importanza relativamente secondaria,
avvenuto solo come conseguenza di particolari vincoli iniziali. L'aspetto
più saliente della storia biologica è la stabilità del modo di vita
batterico, dalle prime testimonianze fossili fino a oggi e, quasi
certamente, anche per tutto il futuro della Terra. La nostra è in realtà
l'"età dei batteri", come era all'inizio e come sarà sempre.
Per ragioni legate alle condizioni chimiche dell'origine della vita e ai
vincoli fisici dell'autorganizzazione, i primi esseri viventi comparsi
sulla Terra si trovavano nei pressi del limite minimo di complessità concepibile e
conservabile. In uno schema che rappresenti la complessità questo limite
inferiore può essere raffigurato come un muro. Poiché la documentazione
fossile ci induce a supporre che la distanza tra esso e il modo di vita
batterico sia molto piccola, vi è una sola direzione possibile per future
modificazioni: un aumento della complessità verso destra. Così, di tanto
in tanto, si evolve un organismo più complesso che estende l'ambito di
diversità della vita nell'unica direzione disponibile. Tecnicamente
parlando, la distribuzione della complessità si sposta sempre più verso
destra in seguito a queste aggiunte occasionali. Simili aggiunte sono però rare ed episodiche. Non costituiscono neppure
una serie evolutiva, ma formano una sequenza eterogenea di taxa aventi
scarsa affinità tra loro, generalmente rappresentati da una cellula
eucariota, una medusa, un trilobite, un nautiloide, un euripteride
(animale di notevoli dimensioni affine agli xifosuri), un pesce, un
anfibio come Eryops, un dinosauro, un mammifero e un essere umano. Non è
possibile interpretare una sequenza di questo tipo come la principale
tendenza o forza propulsiva della storia della vita; si potrebbe
immaginare piuttosto che occasionalmente un organismo ruzzoli nella
regione di destra, vuota, dello spazio della complessità.
Per tutto
questo tempo, il modo batterico è cresciuto in altezza mantenendo
costantemente la stessa posizione. I batteri rappresentano il più grande
successo della storia della vita. Essi occupano una maggiore varietà di ambienti e
comprendono una gamma di processi biochimici più vasta di qualsiasi altro
gruppo. Sono adattabili, indistruttibili e sorprendentemente
diversificati. Non riusciamo neppure a immaginare come l'opera dell'uomo
potrebbe minacciare la loro estinzione, mentre ci preoccupa l'impatto che
le nostre attività possono avere su quasi ogni altra forma di vita. Il
numero di cellule di Escherichia coli che vivono nell'intestino di ciascun
essere umano supera il numero di persone vissute sulla Terra dalla
comparsa dell'uomo.
Si potrebbe sostenere che - benché il processo che conduce la vita nel
suo insieme verso una sempre maggiore complessità rappresenti una
pseudotendenza, basata sulla limitazione dovuta alla presenza del muro a
sinistra - l'evoluzione all'interno di particolari gruppi favorisca in
modo differenziale la complessità nel caso il ceppo fondatore abbia
origine in un punto sufficientemente lontano dal muro, così da permettere
il movimento in entrambe le direzioni. Le ricerche per verificare questa
interessante ipotesi sono appena agli inizi (dato che l'interesse per
questo argomento è relativamente recente tra i paleontologi) e quindi non
disponiamo ancora di un numero sufficiente di casi per procedere a una
generalizzazione. I primi due studi effettuati (quello di Daniel W. McShea
dell'Università del Michigan sulle vertebre dei mammiferi e quello di
George F. Boyajian dell'Università della Pennsylvania sulle linee
suturali delle ammoniti) non hanno rivelato alcuna tendenza evolutiva che
favorisca una maggiore complessità. Inoltre, quando si considera che, per ogni modalità di vita che comporti
un maggiore grado di complessità, ne esiste probabilmente un'altra
ugualmente vantaggiosa, basata su una maggiore semplicità di forma (come
si riscontra, per esempio, nei parassiti), sembra improbabile a priori
un'evoluzione preferenziale verso la complessità.
La nostra impressione
che la vita si evolva verso una maggiore complessità è probabilmente
soltanto un pregiudizio, ispirato da un atteggiamento mentale
"provinciale" che tende a concentrare l'attenzione su noi stessi
e, di conseguenza, a dare eccessiva importanza agli organismi che
diventano più complessi; al contrario, ignoriamo altrettante linee
evolutive che si adattano ugualmente bene assumendo forme via via più
semplici. Il parassita di morfologia degenerata, che si trova in un ambiente protetto nel corpo dell'ospite, ha
altrettante prospettive di successo evolutivo di un suo affine,
splendidamente elaborato, che deve tener testa alle fonde e alle frecce di
una sorte spietata in un mondo esterno crudele.
Anche se la complessità non
fosse altro che un allontanamento da un muro che esercita costrizione, potremmo considerare le tendenze in questa
direzione come maggiormente prevedibili e caratteristiche del corso della
vita nel suo insieme se, col passare del tempo, gli incrementi nella
complessità si accumulassero in maniera persistente e graduale. Ma, per
ciò che concerne la storia della vita, nulla è più stupefacente,
rispetto a questa comune (e falsa) aspettativa, dell'andamento reale -
fatto di lunghi periodi di stabilità e di rapidi cambiamenti episodici -
che ci viene rivelato dallo studio dei reperti fossili.
La vita è rimasta quasi esclusivamente unicellulare per i primi cinque
sesti della sua storia: dai primi fossili documentati, che risalgono a 3,5
miliardi di anni fa, ai primi animali pluricellulari altrettanto ben
documentati, che risalgono a meno di 600 milioni di anni fa. (Alcune alghe
pluricellulari semplici si sono evolute più di un miliardo di anni fa, ma
esse appartengono al regno vegetale e non hanno alcun legame di parentela
con gli animali.) Questo lungo periodo di vita unicellulare comprende,
naturalmente, la transizione di fondamentale importanza dalle
cellule procariote semplici, prive di organelli, alle cellule eucariote
dotate di nuclei, mitocondri e altre strutture intracellulari, ma per
vedere il raggiungimento dell'organizzazione animale pluricellulare
bisogna attendere per ben tre miliardi di anni.
Se la complessità è una
caratteristica tanto valida e, secondo il nostro modo usuale di pensare,
la pluricellularità ne rappresenta la fase iniziale, la vita deve essersi
presa un bel po' di tempo per effettuare questo passo cruciale. Simili
indugi fanno pensare che non si possa considerare il progresso in generale
come il tema principale della storia della vita, anche se è possibile
spiegarli plausibilmente ammettendo che l'ossigeno atmosferico fosse
scarso per gran parte del Precambriano o che la vita unicellulare fosse
incapace di raggiungere una qualche soglia strutturale che fungesse da
presupposto per la pluricellularità.
Fatto ancora più curioso, tutti gli stadi principali nell'organizzazione
della struttura pluricellulare degli animali si sono svolti in un breve
periodo di tempo, a cominciare da meno di 600 milioni di anni fa fino a
concludersi circa 530 milioni di anni fa. Anche le varie fasi all'interno
di questa sequenza sono state discontinue ed episodiche, senza un accumulo
graduale. La prima fauna, detta di Ediacara in onore della località
australiana dove venne scoperta (oggi si sa che essa è presente nelle
rocce più antiche di tutti i continenti), consiste in fronde molto
appiattite, lamine e dischetti composti da numerosi, sottili segmenti
uniti assieme. La natura della fauna di Ediacara è oggi argomento di
intense discussioni. Non sembrerebbe che questi organismi siano solamente
precursori di forme più tardive. Potrebbero costituire un esperimento
separato e fallito nella vita animale, oppure potrebbero rappresentare una
gamma completa di organizzazioni diploblastiche (a duplice strato), della
quale gli attuali celenterati (coralli, meduse e affini) sarebbero l'unica
reliquia, notevolmente alterata.
In ogni caso, la fauna di Ediacara si estinse certamente assai prima che
si evolvessero le faune e le fiore del Cambriano. Quest'ultimo periodo
ebbe dunque inizio con un insieme di strutture disparate e di difficile
interpretazione, definito "piccola fauna a conchiglie". Il
successivo impulso importante, a cominciare da circa 530 milioni di anni fa, costituisce la famosa
"esplosione" del Cambriano, durante la quale tutti i phyla
animali moderni, tranne uno, hanno fatto la loro prima comparsa tra i
reperti fossili. (I geologi avevano dapprima collocato questo evento lungo
un periodo di 40 milioni di anni, ma un eccellente studio pubblicato nel
1993 restringe inequivocabilmente questo arco di tempo di fioritura
filetica a soli cinque milioni di anni.)
I briozoi, un gruppo di organismi
marini sessili e coloniali, non comparvero fino all'inizio del periodo
successivo, l'Ordoviciano, ma questo apparente ritardo potrebbe essere un
artefatto dovuto al semplice motivo che non sono stati scoperti loro
rappresentanti nel Cambriano. Anche se da allora si sono svolti eventi interessanti e spettacolari come
la diffusione dei dinosauri e la comparsa dell'intelligenza umana, non è
esagerato affermare che la storia successiva della vita animale consiste
in poco più che semplici variazioni su temi anatomici già apparsi
durante l'esplosione del Cambriano, in un arco di tempo di soli cinque
milioni di anni.
Tre miliardi di anni di unicellularità, seguiti da
cinque milioni di anni di intensa creatività, a cui si aggiungono oltre
500 milioni di anni di variazioni su temi anatomici ben stabiliti, possono
difficilmente essere interpretati come una tendenza prevedibile,
inesorabile o continua verso il progresso o una crescente complessità. Non siamo in grado di spiegare perché l'esplosione del Cambriano abbia
potuto dare così rapidamente il via a tutti i più importanti tipi di
organizzazione anatomica. Una spiegazione "esterna", su base
ecologica, sembra avere un certo interesse: l'esplosione del Cambriano
rappresenta il riempimento iniziale del "serbatoio ecologico" di
nicchie per gli organismi pluricellulari e qualsiasi esperimento vi ha
trovato spazio. Da allora, il serbatoio non si è mai più svuotato; anche
le estinzioni in massa hanno lasciato alcune specie per ciascun ruolo
importante, e l'occupazione dello spazio ecologico da parte di queste ha
precluso l'opportunità di novità fondamentali. Sembrerebbe però
necessaria, in funzione di complemento, anche una spiegazione
"interna", vale a dire basata sulla genetica e sullo sviluppo: i
più antichi animali pluricellulari avevano forse conservato una certa
flessibilità per il cambiamento genetico e la trasformazione
embriologica, flessibilità che si è fortemente ridotta allorché essi si
sono "bloccati" in un insieme di modelli stabili e di successo.
In ogni caso, questo periodo iniziale di flessibilità interna ed esterna diede origine a tutta una gamma di
organizzazioni anatomiche degli invertebrati le quali (in appena alcuni
milioni di anni) potrebbero aver superato l'intera varietà di forme
animali presenti oggi in tutti gli ambienti terrestri (dopo più di 500
milioni di anni di ulteriore espansione). Gli scienziati hanno opinioni
alquanto discordi su questo argomento. Alcuni sostengono che, in questa
esplosione iniziale, la gamma dei tipi di organizzazione anatomica doveva
essere superiore a quella degli organismi attuali, dato che molti dei
primi esperimenti si sono estinti col passare del tempo e non è più
comparso alcun nuovo phylum. Anche gli scienziati che tendono a opporsi
più decisamente a quest'idea ammettono che la biodiversità del Cambriano
fosse perlomeno uguale a quella attuale: così, anche per chi la pensa nel
modo più prudente, le opportunità emerse nei 500 milioni di anni
successivi non provocarono alcuna espansione della varietà di forme del
Cambriano, raggiunta nell'arco di soli 5 milioni di anni. L'esplosione del
Cambriano fu, dunque, l'avvenimento più straordinario ed enigmatico della
storia della vita.
Inoltre non sappiamo perché la maggior parte dei primi esperimenti si
siano estinti, mentre alcuni sono sopravvissuti per diventare i phyla che
oggi conosciamo. Si sarebbe tentati di dire che i vincitori abbiano
prevalso in virtù di una maggiore complessità anatomica, di una migliore
idoneità ecologica o di qualche altro aspetto prevedibile della convenzionale lotta darwiniana. Essi
però non hanno in comune alcun carattere conosciuto; diventa così
indispensabile prendere in considerazione la radicale alternativa secondo
cui ogni esperimento primordiale ricevette niente altro che l'equivalente
di un biglietto della più grande lotteria mai svoltasi sul nostro pianeta
e ogni linea evolutiva sopravvissuta, compreso il nostro phylum di
vertebrati, esiste oggi sulla Terra più grazie alla fortuna che ha avuto
nell'estrazione che non a un qualsiasi prevedibile esito della lotta per
l'esistenza. La storia della vita animale pluricellulare può essere stata
più una storia di grande riduzione delle possibilità iniziali, con una
stabilizzazione dei fortunati superstiti, che un racconto convenzionale di
espansione ecologica costante e di progresso morfologico nella
complessità.
Infine, questo andamento di lunghe stasi e di rapidi episodi nei quali si
concentra il cambiamento e vengono stabiliti nuovi equilibri può essere
generalizzato a molteplici scale di tempo e di grandezza, fino a formare
una sorta di configurazione frattale dotata di autosomiglianza. In base al
modello della speciazione a equilibri punteggiati, le tendenze all'interno
delle diverse linee evolutive si manifestano attraverso episodi, che si
vanno continuamente accumulando, di speciazione istantanea alla scala dei
tempi geologici, anziché tramite un graduale cambiamento all'interno di
popolazioni continue (si tratta di un processo che assomiglia più al salire i gradini di una scala che non al far rotolare una palla all'insù
lungo un piano inclinato).
Anche se la teoria evoluzionistica suggerisse una potenziale direzione
interna per la storia della vita (i fatti e le argomentazioni
precedentemente esposti inducono, tuttavia, ad avanzare qualche dubbio su
questa affermazione), l'occasionale verificarsi di un cambiamento rapido e
sostanziale, forse addirittura catastrofico, nell'ambiente altererebbe
profondamente questo andamento. Cambiamenti ambientali di questa portata
possono causare l'estinzione di una percentuale elevata delle specie
terrestri e, così facendo, annullare qualsiasi direzione interna e
riorientare il corso della storia biologica in maniera tale da farlo
apparire capriccioso e concentrato in singoli episodi anziché costante e
direzionale.
Estinzioni in massa vennero individuate già agli albori
della paleontologia; le principali suddivisioni della scala del tempo
geologico sono state stabilite in corrispondenza di limiti contrassegnati
da simili eventi. Ma fino a quando, alla fine degli anni settanta, non si
ebbe un risveglio di interesse per questi fenomeni, buona parte dei
paleontologi trattò le estinzioni in massa solo come un'intensificazione
di eventi ordinari, che portava (al massimo) a un'accelerazione di
tendenze già esistenti in tempi normali. Secondo la teoria gradualistica
delle estinzioni in massa, questi eventi impiegavano in realtà milioni di
anni per svolgersi (e la loro rapidità apparente era interpretata come un
artefatto dovuto alla documentazione fossile incompleta); essi non
facevano altro che accelerare fenomeni che già si manifestavano in tempi
ordinari (per esempio, una più intensa competizione darwiniana in
situazioni difficili che portava a una sostituzione estremamente
efficiente delle forme meno adattate da parte di forme migliori).
La reinterpretazione delle estinzioni in massa come eventi fondamentali
per la storia biologica e radicalmente diversi dalla spiegazione
tradizionale ebbe inizio nel 1979, allorché Luis e Walter Alvarez presentarono dati dai
quali si poteva dedurre che l'impatto di un corpo extraterrestre di grandi
dimensioni (probabilmente un asteroide con diametro compreso fra sette e
10 chilometri) fosse responsabile dell'ultima grande estinzione, avvenuta
65 milioni di anni fa, al limite tra Cretaceo e Terziario. Anche se, in un
primo momento, l'ipotesi degli Alvarez trovò un'accoglienza alquanto
scettica da parte della comunità scientifica (atteggiamento peraltro del
tutto opportuno nei riguardi di spiegazioni così anticonformiste), essa
sembra oggi pressoché dimostrata in seguito alla scoperta dell'"arma
del delitto", un cratere di dimensioni ed età appropriate
localizzato al largo della penisola dello Yucatan, in Messico.
Il risveglio di interesse per le estinzioni in massa ha anche indotto i
paleontologi a classificare in modo più rigoroso i dati relativi a esse.
Ricerche effettuate da David M. Raup, J. J. Sepkoski, Jr., e David
Jablonski dell'Università di Chicago hanno permesso di individuare cinque
estinzioni principali (avvenute alla fine dell'Ordoviciano, nel tardo
Devoniano, alla fine del Permiano, alla fine del Triassico e alla fine del
Cretaceo), oltre a molte estinzioni minori, in tutti i 530 milioni di anni
della storia degli animali pluricellulari. Non abbiamo alcuna prova
concreta che qualcuno di questi eventi, a parte l'ultimo, sia stato
scatenato da un impatto catastrofico, ma lo studio accurato condotto da
Raup e collaboratori porta alla conclusione generale che le estinzioni in
massa debbano essere state più frequenti, più rapide, più estese per
dimensione e più varie nei loro effetti di quanto fosse stato in
precedenza supposto. Queste quattro caratteristiche illustrano quanto
siano profonde le implicazioni delle estinzioni in massa nel consentirci
di interpretare il corso della storia biologica come contingente e
capriccioso, anziché come prevedibile e destinato a svolgersi in una ben
precisa direzione.
Le estinzioni in massa non sono del tutto casuali nel loro impatto sulla vita. Alcuni gruppi di organismi
soccombono e altri sopravvivono come risultato logicamente deducibile
della presenza o dell'assenza di determinate caratteristiche evolutive.
Ma, specialmente se la causa che innesca l'estinzione è improvvisa e
catastrofica, le ragioni che determinano la vita o la morte possono avere
ben poco a che fare con l'adeguatezza di caratteri evolutisi nel corso di
una competizione darwiniana svoltasi in tempi normali. Il fatto che le
estinzioni in massa siano eventi che si fondano su "regole
differenti" impartisce al corso della storia biologica un carattere
bizzarro e imprevedibile, in quanto un gruppo di organismi non può, in
tutta evidenza, anticipare evenienze future ditale portata e con effetti
così vari.
Citerò due esempi che risalgono all'estinzione avvenuta 65 milioni di
anni fa, al limite tra Cretaceo e Terziario, e dovuta a un impatto
meteoritico. In primo luogo, un importante studio pubblicato nel 1986 ha
messo in rilievo che le diatomee sopravvissero a quell'estinzione molto
meglio degli altri componenti unicellulari del plancton (in primo luogo
coccoliti e radiolari). E' stato scoperto che molte di esse avevano
sviluppato una strategia di quiescenza per incistamento, forse per
sopravvivere alle condizioni sfavorevoli di certe stagioni (per esempio,
nelle specie polari, i lunghi mesi di oscurità che diversamente sarebbero
stati fatali a cellule dotate di attività fotosintetica; oppure una
disponibilità sporadica della silice necessaria per costruire gli
scheletri). Altre cellule planctoniche non avevano invece sviluppato alcun
meccanismo di quiescenza. Se, al termine del Cretaceo, l'impatto
meteoritico produsse davvero una nube di polvere tale da schermare la
luce del Sole per parecchi mesi o più, le diatomee potrebbero essere
sopravvissute fortuitamente grazie ai loro meccanismi di quiescenza, che
pure si erano sviluppati per compiere una funzione totalmente diversa: il
superamento di avversità stagionali in tempi ordinari. Le diatomee non
erano in qualche modo superiori ai radiolari o ad altri organismi planctonici che furono
colpiti in maniera molto più grave dall'estinzione; ebbero semplicemente
la fortuna di possedere un carattere vantaggioso, evolutosi per altre
ragioni, che consentì loro di superare l'impatto e le sue catastrofiche
conseguenze.
In secondo luogo, sappiamo tutti che i dinosauri perirono in un evento
verificatosi alla fine del Cretaceo, lasciando ai mammiferi la
possibilità di dominare, come oggi avviene, il mondo dei vertebrati. I
più danno per scontato che i mammiferi prevalsero in quei tempi difficili
grazie a una qualche loro superiorità generale sui dinosauri, ma una
simile conclusione sembra assolutamente improbabile. Mammiferi e dinosauri
erano coesistiti per 100 milioni di anni, e per tutto questo tempo i
mammiferi avevano mantenuto dimensioni paragonabili a quelle di un ratto o
anche minori, senza compiere alcuna "mossa" evolutiva per
spodestare i dinosauri dalla loro posizione di dominanza. Finora non è
stato proposto alcun argomento valido che spieghi la supremazia dei
mammiferi come dovuta a una loro superiorità generale; sembra che la
causa di gran lunga più probabile sia stata accidentale.
Un'argomentazione plausibile potrebbe essere che i mammiferi siano
sopravvissuti in parte per effetto della loro piccola mole (la quale
implica popolazioni molto più numerose, che oppongono una maggiore
resistenza all'estinzione, e una minore specializzazione ecologica che
consente, per così dire, di disporre di un numero più elevato di posti
per nascondersi). La piccola mole potrebbe, però, non essere stata
affatto un adattamento positivo dei mammiferi, ma piuttosto un segno della
loro perenne incapacità di competere efficacemente con i dinosauri.
Eppure questa caratteristica, "negativa" in tempi normali,
potrebbe essere stata la ragione principale della sopravvivenza dei
mammiferi, e una condizione necessaria perché io oggi possa scrivere
questo articolo e voi siate in grado di leggerlo.
Sigmund Freud faceva
spesso notare come le grandi rivoluzioni nella storia della scienza
abbiano un'unica caratteristica comune, carica d'ironia: demoliscono tutti quei piedistalli su cui l'umanità si è posta, convinta
della propria importanza. Nei tre esempi che Freud riferiva, Copernico
spostò la nostra collocazione dal centro dell'universo alla periferia;
Darwin ci relegò poi a una "discendenza dal mondo animale";
infine (in una delle affermazioni meno modeste della storia del pensiero),
lo stesso Freud scoprì l'inconscio e distrusse il mito di una mente
completamente razionale.
In questo senso saggio e decisivo, la rivoluzione darwiniana rimane
dolorosamente incompleta perché, anche se l'umanità razionale accetta
l'evoluzione come un fatto, la maggior parte di noi ancora non è disposta
ad abbandonare la confortante idea che evoluzione significhi (o perlomeno
non possa avvenire senza) progresso, il che rende la comparsa di qualcosa
come la coscienza umana pressoché inevitabile, o perlomeno prevedibile.
Il piedistallo non verrà infranto fino a quando non abbandoneremo, come
principi fondamentali, il progresso e lo sviluppo di una complessità
sempre maggiore, e cominceremo a tenere in considerazione la possibilità
tutt'altro che remota che Homo sapiens sia solamente un minuscolo
ramoscello tardivo di quell'enorme cespuglio arborescente che è la vita:
una piccola gemma che, quasi certamente, non riuscirebbe a comparire una
seconda volta se si potesse ripiantare il cespuglio partendo dal seme e
lasciarlo crescere di nuovo.
Nell'uomo, come in tutti i primati, la visione è importante, e le
immagini che realizziamo rivelano le nostre convinzioni più profonde e
mettono in luce i nostri attuali limiti concettuali. Gli illustratori
hanno sempre rappresentato la storia degli animali fossili come una
sequenza che parte dagli invertebrati per giungere agli esseri umani,
passando dai pesci ai primi anfibi terrestri, ai rettili, ai dinosauri e
ai mammiferi. Non vi sono eccezioni; tutte le sequenze di immagini
realizzate a partire dalla nascita di questo genere di rappresentazione,
intorno alla metà del secolo scorso, seguono la stessa convenzione. Eppure le assurdità e i preconcetti codificati in questa convenzione
generalizzata saltano facilmente all'occhio. Nessuna scena mostra più
alcun invertebrato dopo l'evoluzione dei pesci, ma nel frattempo gli
invertebrati non sono affatto scomparsi né hanno cessato di evolversi!
Nessuna scena mostra mai un pesce dopo la comparsa dei rettili (le
illustrazioni riguardanti i mari in epoche successive mostrano solo quei
rettili che tornarono alla vita acquatica, come gli ittiosauri e i
plesiosauri), ma i pesci non hanno per nulla cessato di evolversi dopo che
un piccolo gruppo staccatosi dalla loro linea evolutiva iniziò a colonizzare la terraferma. In
effetti, il principale evento
nell'evoluzione dei pesci, l'origine e lo sviluppo dei Leleostei, o pesci
ossei moderni, che sono oggi predominanti, avvenne all'epoca dei
dinosauri e pertanto non viene mai illustrato in alcuna di queste
sequenze, anche se i teleostei annoverano più della metà di tutte le
specie di vertebrati. Inoltre perché gli esseri umani devono sempre
apparire alla fine di tutte queste sequenze? L'ordine dei primati a cui
apparteniamo è antico tra i mammiferi, e molte altre linee evolutive che
hanno avuto successo sono apparse dopo di noi.
Non manderemo in frantumi il piedistallo di cui parlava Freud nè
completeremo la rivoluzione di Darwin fino a quando non troveremo,
capiremo e accetteremo un altro modo di rappresentare la storia della
vita. J. B. S. Haldane ha proclamato che la natura "è più bizzarra
di quanto noi possiamo supporre", ma i nostri limiti di comprensione
potrebbero essere blocchi concettuali anziché restrizioni imposte dalla
fisiologia del nostro sistema nervoso. Per infrangere questi blocchi
serviranno forse nuovi paradigmi, e saranno alberi evolutivi (o meglio
lussureggianti cespugli evolutivi copiosamente ramificati), anziché scale
e sequenze, a fornirci la chiave per poter compiere questa transizione
concettuale.
Dobbiamo imparare a rappresentare l'intera gamma di variazioni e non solo
la nostra percezione ristretta del minuscolo gruppo degli organismi più
complessi. Dobbiamo riconoscere che forse l'albero della vita aveva il
massimo numero di rami subito dopo l'inizio della vita pluricellulare e
che la storia successiva è stata in gran parte un processo di
eliminazione - nel quale pochi hanno avuto la fortuna di sopravvivere - più che una fioritura continua, un progresso e un'espansione di una
moltitudine crescente. Dobbiamo capire che i rami non sono altro che
monconi contingenti, e non prevedibili punti di arrivo dell'immenso
cespuglio sottostante. Dobbiamo infine ricordarci della più grande tra
tutte le affermazioni bibliche sulla saggezza: "E un albero di vita
per coloro che cercano in essa un sostegno; e felice è chiunque la
conserva".
Tratto da: Gould S.J. L'evoluzione della vita sulla Terra, Le
Scienze n.316 [pp.65-72]
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