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Massimo Piattelli Palmarini 

~ L'animale come modello «


Le rappresentazioni sono l'essenza della nostra vita mentale e niente di ciò che esiste può diventare una cosa "per noi" se non riusciamo prima a rappresentarcelo mentalmente.Tra tutte le classi di rappresentazioni mentali, quella riguardante gli animali occupa fin dalla più tenera infanzia un ruolo privilegìato. Le storie più apprezzate dai bambini sono ricche di ogni sorta di animali, e in ogni lingua troviamo espressioni zoomorfe per caratterizzare inclinazioni, atteggiamenti e temperamenti umani ("coraggio da leone", "occhio di linee", "astuzia da volpe", "fedele come un cane" sono solo alcuni degli esempi più tipici). Non è un caso che le simbologie animali abbiano un particolare risalto negli stemmi araldici e perfino nelle insegne di molti Stati.

Le moderne scienze cognìtive hanno studiato in modo attento e sistematico questo aspetto centrale della psiche umana e hanno scoperto, per esempio, che le categorie mentali relative al mondo animale - non solo queste, ma queste in modo molto spiccato - sono organizzate intorno a dei "prototipi": il passerotto è "più" uccello del pinguino, la trota è "più" pesce della murena, la formica "più" insetto di una farfalla. Questa curiosa, ma universale, intuizione è presente anche in coloro che possiedono criteri oggettivi per definire quando un dato esemplare è o non è un uccello, è o non è un pesce, un insetto e così via. Il potere psicologico del prototipo si fonda su una cristallizzazione di un modello mentale ideale, spesso inconscio, e sul calcolo rapido e intuitivo della "distanza" tra questo modello e i singoli esemplari. Ciò equivale a dire che i concetti di uccello, pesce, insetto e animale in genere sono intrinsecantente organizzati come modelli. Modelli di quello che sono, certo, ma anche modelli di qualcos'altro, qualcosa che ha a che fare con noi. Infatti, alcune "dimensioni" umane risultano capitali nel rendere conto di questo spazio di rappresentazioni mentali: per esempio, taglia, grado di domesticità e "graziosità". Uccelli molto grandi, poco domestici e poco graziosi, come l'aquila, cadono lontano dal prototipo, mentre uccelli piccoli, domestici e graziosi come il canarino e l'usignolo cadono molto vicino.

Quanto siano cognitivamente importanti queste dimensioni antropomorfe lo si vede dal fatto che un dato esemplare, per esempio il pesce imperatore, può essere un mediocre esemplare di pesce, un mediocre esemplare di "beniamino" (pet), ma un eccellente esemplare della categoria umanizzata "pesce beniamino" (pet-fìsh). Questi esempi dimostrano che, in modo conscio o inconscio, adottiamo dei parametri nettamente antropomorfici per "comporre" le classi. Queste categorie non rispettano nessuna logica classica, non sono né insiemi, né insiemi sfumati (fuzzy sets), né gerarchie di inclusione. Negli ultimi anni sì è costruita un'algebra formale che rispecchia la nostra rappresentazione mentale "prototipica" delle categorie e dei concetti. Ci si è accorti che non assomiglia a nessun modello standard della logica e della matematica. Questo spiega, in parte, i disastri della "artificial intelligence" in questo settore.

Gli esperimenti condotti da Susan Carey al MIT e da Frank Keil alla Cornell University fin dagli anni Settanta dimostrano quanto precoci e profonde siano le conoscenze che un qualsiasi bambino ha del mondo vivente in genere e del mondo animale in particolare. A un bambino di più di cinque anni viene detto: "Gli scienziati hanno scoperto un organo del corpo chiamato omento. Le mosche lo hanno, le lucertole lo hanno e noi lo abbiamo. Secondo te, anche i conigli lo hanno?". Il bambino risponde con sicurezza di sì nella stragrande maggioranza dei casi, come farebbe chiunque di noi.
Adesso gli sì racconta una storia solo in parte diversa: "Gli scienziati hanno scoperto un organo del corpo chiamato golgi. I fiorì lo hanno e le api lo hanno. Pensi che lo abbiano anche i conigli?". In questo caso il bambino confessa di essere incerto. Se gli viene detto che il golgi è posseduto da fiori, api e cani, e poi gli si chiede se anche noi lo abbiamo, la risposta dominante è sì, ma con una certa insicurezza.

Questi sono esempi di quello che si chiama in gergo "induzione naturale", una facoltà prodigiosa, quasi certamente innata, che pare raggiungere il suo apice proprio per giudizi intuitivi riguardanti il mondo animale. La controprova la si fa chiedendo, invece, giudizi intuitivi su macchine e artefatti: "Gli ingegneri hanno messo a punto un congegno molto utile chiamato bicratore (o qualche altro nome appositamente inventato). Hanno deciso di montano sempre, da ora in poi, sulle biciclette, sulle motociclette e sugli aerei. Pensi che lo monteranno anche sulle automobili?". In questo caso le risposte sono molto incerte. La "logica" delle induzioni naturali è molto più debole per gli artefatti che non per il mondo animale.

Frank Keil ha anche osservato che nei bambini di oltre sette anni i giudizi spontanei sull'identità di specie, cioè sulla stabilità di appartenenza a una specie, sono molto più forti di quelli sull'identità di congegni e artefatti. Ecco una storia-tipo: "Guarda questa foto (la foto mostra una puzzola). I suoi genitori sono fatti così (mostra la foto di due procioni) e i suoi figli saranno così (foto di piccoli procioni). Da piccola anche lei era così (foto di un piccolo procione), ma poi gli scienziati l'hanno accuratamente dipinta e hanno inserito sotto la pelle un sacchetto che contiene una sostanza puzzolente e hanno fatto altre operazioni, e ora è diventata così (foto della puzzola). Secondo te che cosa è ora: una puzzola o un procione?". I bambini molto piccoli, di circa quattro anni, si mostrano incerti e dicono spesso che ora è una puzzola, ma i bambini più grandi rispondono con molta sicurezza che si tratta sempre e comunque di un procione. Un procione che sembra una puzzola. Quando, invece, si racconta una storia simile a proposito di un giradischi trasformato in una giostra in miniatura, o di una caffettiera trasformata in ferro da stiro a vapore, il bambino, a qualunque età, dice con certezza che ora il congegno è una giostra in miniatura, è un ferro da stiro. Per un robusto giudizio intuitivo, le intenzioni del costruttore umano sono ritenute determinanti nel dare identità a un congegno, ma non possono cambiare la natura intima di un animale. Se si è procione, lo si resterà per sempre.

Da questi e molti altri esperimenti si può concludere che le nostre rappresentazioni mentali del mondo animale formano davvero una classe a parte. Siamo portati a ritenere che ci sia una sorta di essenza, una qualità intrinseca complessa e specifica che fa sì che un procione sarà per sempre un procione, qualunque cosa gli scienziati gli facciano, mentre una bicicletta trasformata in un carrozzino sarà, a tutti gli effetti, un carrozzino. Questa nostra idea spontanea, "selvaggia", dell'essenza resiste a dispetto di secoli di progresso scientifico, ed è di natura quasi platonica. Una volta che un essere vivente possiede una certa essenza, quella propria della sua specie, ne consegue in modo automatico e inevitabile che avrà l'indole insita nella sua essenza, sarà animato da istinti tipici, e così via. La rappresentazione mentale (di nuovo, per lo più inconscia o semiconscia) di un'intima e necessaria natura in ogni specie animale si abbina perfettamente all'idea di un prototipo, cioè di un modello astratto ideale. La volpe "più" volpe è anche la più furba, il serpente "più" serpente è anche il più insidioso.

La fantasia popolare di ogni tempo e di ogni paese, come ben ricostruito da Vladimir Propp per le fiabe e da Claude Lévi-Strauss per i miti, obbedisce a questi dati cognitivi primari, a queste rappresentazioni mentali comuni a ogni membro della specie umana. All'analisi delle fiabe e dei miti possiamo aggiungere l'analisi della conoscenza prescientifica dell'occidente. Tutto cospira a mostrare che c'è in noi un'ambivalenza fondamentale: l'animale è come noi, ma è anche l'opposto di noi. Avvertiamo a un tempo la nostra "essenziale" appartenenza al mondo animale e la nostra "essenziale" diversità. Sembra un paradosso logico. Anzi, lo è. Si oscilla sempre tra questi due poli o "attrattori" (nel senso del matematico René Thom): l'immedesimazione con l'animale e la nostra radicale alterità. La storia delle culture dimostra come, in epoche successive, una stessa cultura abbia a volte esasperato l'unicità dell'uomo, costruendone la natura come l'opposto della natura animale (per esempio nell'occidente cristiano e nell'illuminismo), per poi rivalutare la continuità tra animale e uomo (per esempio nella riscoperta rinascimentale del mondo pagano e nella reazione romantica all'illuminismo).

Le feroci reazioni scatenate dalla teoria evoluzionista, e fortemente "continuista", di Darwin sono ben note. L'idea di avere le scimmie per antenati suscitava un misto di orrore e di ilarità. Sintomatico è che oggi queste reazioni ci appaiono assurde, bigotte, vittoriane. Infatti, stiamo di nuovo vivendo una fase di intenso continuismo, alimentato dalle idee maestre delle nuove culture popolari, promotrici di una visione della natura umana "essenzialmente" tesa all'armonia ecologica, al naturismo, al corpo-centrismo, al rispetto dei diritti animali.L'animale oggetto di queste concezioni è, come sottolineavo all'inizio, sempre un animale "rappresentato", mai un semplice insieme di organi e di cellule. Quindi, tra le innumerevoli specie esistenti e gli innumerevoli comportamenti di ciascuna di queste, si seleziona via via culturalmente solo ciò che "ci fa più comodo". La contraddizione tra l'appartenenza e l'alterità (nel rapporto mentalmente rappresentato tra uomo e animale) è talmente fondamentale che nemmeno la scienza può sottrarvisi.I trionfi della biologia moderna sono la migliore climostrazione di quanto utile sia il "modello animale" per comprendere l'uomo. Il motto di .Tacques Monod era "ciò che vale per un batterio vale anche per l'elefante". Il suo stretto collaboratore d'un tempo, con il quale ha condiviso il Nobel nel 1965, Francois Jacob, ama tuttora ripetere "la souris c'est nous".

Tuttavia, in seno alla scienza sopravvive una contraddizione sul tema del continuismo. Se la biologia molecolare e la neurobiologia non esitano a cercare ogni sorta di modelli animali, questa tendenza si è spesso rivelata esiziale su altri versanti, per esempio in psicologia e in linguistica. Un motto che non è mai stato scritto in questo modo, ma che è implicito in gran parte della psicologia ancora oggi dominante in Europa, è il seguente: "Siccome la vita è un continuo, allora anche la cognizione, che è un aspetto della vita, deve essere un continuo". La fiducia in questo sofisma accomuna scuole tra loro tanto diverse quanto il comportamentismo skinneriano e il costruttivismo piagetiano. In particolare, come ho già scritto nel precedente capitolo, si è sostenuto contro ogni evidenza che gli animali superiori dovessero avere una qualche forma rudimentale di linguaggio, in quanto il linguaggio è un aspetto della cognizione, questa è un aspetto della vita e la vita è un continuo evolutivo. Si deve invece prendere atto che siamo la sola specie a possedere il linguaggio. Gli scimpanzé, i gorilla e i delfini non hanno e non possono acquisire alcun linguaggio remotamente simile ai linguaggi naturali umani, compresi i linguaggi gestuali dei non udenti. Hanno dei sistemi di comunicazione, ma questi sono per struttura - non solo per ricchezza - tutt'altra cosa dal linguaggio.

Come mai psicologi ed "esperti" hanno potuto ingannarsi e ingannarci? Perché l'ideologia scientifica continuista è talmente potente e diffusa da non lasciare spazio ad alcuna discontinuità: se l'uomo ha il linguaggio, anche le scimmie devono averlo (o almeno averne un po'). Questa idea errata sussiste a dispetto dì quanto hanno scritto linguisti come Noam Chomsky evoluzionisti come Stephen Jay Gould e Richard Lewontin, psicologi animali ed esperti di primati superiori come David Premack. La reazione a queste smentite è che, se nemmeno gli scimpanzé hanno un rudimento di linguaggio, allora il linguaggio è "un miracolo"; siccome nella scienza non c'è posto per i miracoli, non si può ammettere che gli scimpanzé (o i gorilla, o i delfini) non abbiano anche loro "un" linguaggio.

Ciò che mi preme è evidenziare gli effetti scientifici della contraddizione tra continuismo animale e specificità umana, mostrare il "lavoro in corso" di un'ideologia scientifica. Se una specie abbia o meno un linguaggio dovrebbe apparire a tutti per quello che è: un problema empirico, qualcosa da determinare attraverso una seria osservazione scientifica. Ma non è così. In questo caso si ritiene vero a priori, necessariamente vero, che le specie a noi più simili debbano per forza avere un embrione di linguaggio. Quello che. si fa, allora, è ridefinire la nozione di linguaggio in modo tale da rendere vera questa tesi. Per esempio, si definisce il linguaggio come un sistema di comunicazione, o come un "gioco", o come un "codice", o come un "sistema di segni". Siccome l'italiano, l'inglese, il cinese ecc, sono anche sistemi di comunicazione (così come sono anche codici, giochi, sistemi di segni), allora si conclude che lo scimpanzé ha un linguaggio. La forza intuitiva delle nostre rappresentazioni mentali prescientifiche è tale da costringere la scienza a seguirle, giustificarle, perfezionarle. Una strategia che farebbe orrore a un fisico, un logico, un chimico o un biologo viene invece applicata senza reticenze alla psicologia e alla linguistica.
È interessante notare che questa strategia non è mai stata adottata a proposito dell'aritmetica. Si è accettato senza resistenza che nessun animale sappia contare, né possieda il concetto di numero, nè quello di somma, prodotto ecc. Un piccione, un topo e, a maggior ragione, uno scimpanzé riesce a discriminare tra un mucchio che contiene tre sassi e uno che ne contiene cinque. Infatti sono visivarnente diversi. Ma non potrà discriminare tra uno che ne contiene quindici e uno che ne contiene sedici (a meno che non ci sia una differenza visiva perspicua). Questo è un dato di fatto ìncontestato. Nessuno ha avuto la singolare idea di rìdefinire il concetto di numero in modo tale da farne un'entità percettiva e poter così affermare che anche gli animali sanno contare "un po'". Per quale motivo? Perché la capacità aritmetica non è, per qualche ragione, considerata un tratto "essenziale" della natura umana. Forse perché molti popoli non ne fanno uso, forse perché non tutti noi ci sentiamo padroni del sistema aritmetico, forse perché si manifesta solo quando diventiamo più grandi.

Dal punto di vista scientifico, queste sono tutte pessime ragioni: la capacità aritmetica è un tratto altrettanto essenziale e unico della natura umana quanto lo è il linguaggio (forse l'una è strettamente legata all'altro). Tuttavia, la capacità aritmetica non fa parte della nostra rappresentazione mentale intuitiva, prescientifica, di ciò che è "tipico" della natura umana. Il linguaggio, invece, sì. Ed è per questo che assume un ruolo emotivo capitale nell'ideologia continuista. Locke e Cartesio ritenevano ovvio che un animale non parlasse e non fosse dotato di ragione. Oggi, per una diversa ideologia, molti ritengono altrettanto ovvio che lo scimpanzé debba parlare (almeno a gesti) e che debba possedere un rudimento di razionalità. Siccome "deve", a poco serve che gli scienziati smentiscano queste idee con i fatti. L'altalena tra continuismo ("noi siamo come gli animali") e discontinuismo ("noi siamo molto diversi dagli animali") è una costante della psiche umana. La scienza dovrebbe, però, sganciarsi da queste rappresentazioni ingenue e procedere a determinare fino a che punto e in quali ambiti siamo prossimi a quale animale.

Come abbiamo accennato nel precedente capitolo, l'impostazione attualmente più seria del problema della "modellizzazione" (se vi siano o meno buoni modelli animali per comportamenti e strutture cognitive umane) è un modello modulare e puntuazionista (i termini sono, rispettivamente, tratti dallo psicologo e filosofo Jerry A. Fodor e dal biologo evoluzionista Stephen Jay Gould). Una specie che è un ottimo modello per certe strutture o capacità umane (il cincillà lo è per certe sensibilità fonetiche del nostro orecchio) può essere un pessimo modello per altre nostre capacità. Se si vuole studiare, per esempio, l'asimmetria cerebrale umana, certi uccelli canori (come dimostrato dagli studi di Peter Marler e Fernando Nottebohm) sono un eccellente modello (più di molte scimmie). Se sì vuole, invece, studiare la nostra capacità di risolvere problemi concreti della vita mediante schemi mentali e attraverso l'uso di utensili, allora lo scimpanzé è un ottimo modello. Questo è l'aspetto modulare: ogni capacità umana specifica può avere un suo "antenato" nel mondo animale.

L'aspetto puntuazìonista è complementare all'aspetto modulare: vi sono specie che rappresentano l'apoteosi di una certa linea evolutiva e che si sono "fermate" all'apice di quella linea. L'evoluzione ha le sue "sacche" e i suoi punti di ristagno. La vera novità evolutiva, il passaggio a specie genuinamente diverse, non avviene sempre e necessariamente (con buona pace di Darwin) per piccoli cambiamenti, con continuità. Ci sono talvolta discontinuità anche notevoli, di cui si comincia a capire la base genetica, in quanto si è visto che il materiale cromosomico può subire rare ristrutturazioni di notevole portata.Un'importante scoperta, pubblicata su "Nature" nel gennaio del 2002, ha infatti sconfitto una inveterata obiezione dei creazionisti alla teoria dell'evoluzione biologica. A detta dei creazionisti, la cieca lotteria genetica delle piccole mutazioni successive sarebbe incapace di produrre grandi cambiamenti in una specie biologica. Un gamberetto, per esempio, potrebbe diventare più grande, o più scuro, o sviluppare delle zampe più robuste, ma non potrebbe dare origine a una mosca, né da questa può potrebbe nascere, attraverso molti mutamenti intermedi, per esempio, un topo. In un laboratorio della California, invece, sono state riprodotte in dettaglio due piccolissime mutazioni, avvenute quattrocento milioni di anni fa, grazie alle quali si passò di colpo da un artropode, l'artemia (detta anche scampetto della salamoia o scimmiotto di mare), al moscerino dell'aceto (la celeberrima drosofila, cara ai genetistì fin dal lontano 1911, quando, grazie a lei, Thomas Hunt Morgan identificò i cromosomi come sede dei geni). L'artemia ha undici paia di zampe e una sorta di coda che muove con vigore mentre nuota, mentre il moscerino ha ali per volare, solo tre paia di zampe e nessuna coda. Come queste due minime e antichissime mutazioni spontanee in un gene "maestro" siano riuscite a produrre un tale cambiamento è stato ricostruito, sequenza per sequenza e molecola per molecola, dai genetisti Matthew Ronshaugen, Nadine McGinnis e William McGinnis, dell'università della California a San Diego.

I creazionisti non avevano immaginato che una mutazione genetica potesse colpire, non un gene qualunque, uno di quelli che governano, poniamo, la lunghezza della coda, lo spessore della cute o il colore degli occhi, bensì un gene che regola l'intero piano di sviluppo dell'embrione. Come già da tempo i biologi sospettavano, una piccola, rara e fortunata mutazione in un gene di regolazione, uno di quelli che ho sopra chiamato geni "maestri" (ma nel gergo dei genetisti sono detti "omeotici", e in questo caso particolare si tratta del ben studiato gene Hox), può d'un tratto produrre una specie nuova, assai diversa da quella di partenza. Le raffinate manipolazioni genetiche descritte nell'articolo di "Nature", in tutto identiche a ciò che spontaneamente deve essere avvenuto quattrocento milioni di anni fa, confermano adesso in modo sperimentale che il sospetto era ben fondato. I normali meccanismi di mutazione genetica, poi seguiti dalla selezione naturale, sono, quindi, genuinamente capaci di generare delle assolute novità biologiche, cioè delle specie nuove. Questa importante conferma viene a corroborare, tra l'altro, le ipotesi "discontinuiste" propugnate da decenni soprattutto da Stephen Jay Gould e Rìchard C. Lewontin, una loro azzeccata analogia può forse aiutarci a capire meglio: l'evoluzione biologica non è una sfera liscia che rotola nel tempo con continuità, bensì un poliedro sfaccettato che, di tanto in tanto, procede scattando di colpo da una faccia a un'altra contigua, senza soste intermedie. Il passaggio dallo scampetto della salamoia al moscerino dell'aceto è stato uno di questi scatti. Quando, nel piano generale comune di un embrione, sempre fortemente compartimentato, uno stesso gene comincia d'un tratto a reprimere lo sviluppo di certe sezioni e ad attivarne e potenziarne altre, dal nuotare nella salamoia si passa al volare nell'aria. L'impalcatura modulare del vivente consente questo e ben altro.

In ogni caso, è importante sottolineare che non esiste una grande catena del mondo vivente. Ci sono molte ramificazioni ciascuna delle quali può essere un ottimo "modello" per un fenomeno specifico. Una visione modulare e puntuazionista può costituire una buona base concettuale e sperimentale per affrontare in modo nuovo il problema dell'animale come modello per l'uomo. I biologi molecolari lo sanno da tempo, avendo basato i loro studi sempre su quelle specie, su quegli organi e su quelle linee cellulari che mostrano un fenomeno in modo particolarmente "puro" ed esemplare. La biologia moderna si è costruita su sistemi-modello come l'assone gigante del calamaro, le ghiandole salivari della drosofila, il sistema immunitario del topo, il sistema nervoso dell'aplysia ecc. Non c'è motivo di dubitare che anche per certi comportamenti e per certe attitudini cognitive si possano trovare sistemi-modello dello stesso ordine. Va precisato, comunque, che ci sono facoltà e attitudini che purtroppo non hanno alcun modello animale, se considerate nel loro complesso. Modelli animali potranno essere trovati, forse, solo per delle sotto-componenti più piccole o più locali. Bisogna anche precisare che perfino l'antenato a noi più vicino nel tempo e nella genetica, lo scimpanzé, può essere un pessimo modello per certi tratti tipicamente umani. Come dicevo sopra a proposito del linguaggio e dell'aritmetica, la scienza moderna ci dice che non esiste in questo campo alcun "dover essere". Nessuna specie "deve" essere il modello dell'uomo. Così come nessuna specie "deve" essere il modello di un'altra specie, seppure vicina. Il sistema visivo del gatto è assai diverso da quello del coniglio, il sistema uditivo della civetta assai diverso da quello di un passero. La catena unilineare del vivente è una concezione che non regge ai risultati delle moderne scienze biologiche. La vita procede per collage e patchwork, non come in una scalata lenta e uniforme verso la singola "vetta" uomo.

Lo schema modulare e puntuazionista da me presentato, tuttavia, non deve essere interpretato come una ricapitolazione generale di tutto il vivente, quasi noi fossimo una sorta di superorganismo sincretico che assomma in sé i punti "antologici" più raffinati dell'evoluzione (unendo l'intelligenza dello scimpanzé all'orecchio del cincillà, alla vista del gatto ecc.). I moduli mentali e fisiologici spesso interferiscono tra loro e si limitano a vicenda. Non sempre la somma dei moduli fornisce la somma delle loro singole funzioni. Infatti, esistono animali specializzati che sono più abili di noi in quasi ogni campo delle nostre attività. A differenza dell'uomo, per esempio, il topo riesce a memorizzare labirinti a forma stellare multipla. Inoltre, una similarità funzionale utile ai fini dell'indagine scientifica non va confusa con una genesi effettiva. Il nostro orecchio non proviene da quello del cincillà, ma da quello di un antropoide simile allo scimpanzé. Eppure il cincillà batte dì molti punti lo scimpanzé nella sottile discriminazione tra consonanti umane. Un miracolo? Un ritorno del rimosso? Un "effetto tunnel" entro le barriere evolutive? Niente di tutto questo. L'enorme ridondanza genetica, somatica e funzionale degli organismi superiori fa sì che alcune sottili alterazioni sopprimano o amplifichino certe potenzialità latenti. L'evoluzione non procede componendo un'antologia, ma scuotendo vigorosamente un cassone pieno di cianfrusaglie. Un tratto venuto in superficie in un dato momento viene sprofondato in un altro, per poi riapparire a un'ulteriore scrollata. Un'antologia scientifica di modelli animali non presuppone che la specie umana così modellizzata sia essa stessa evolutivamente antologica. L'uomo non è la riunione di tutte le caratteristiche animali, con in più qualcosa di unico. È una versione evolutiva specifica di molti tratti complessi, alcuni dei quali sono riscontrabili anche in altre specie, ma altri non hanno precedenti. Ogni specie è unica, proprio in questo senso e, come noi, nessuna è evolutivamente isolata.

Una contraddizione, in fondo, resta. Ogni individuo di ciascuna specie "sa" di appartenere a una specialissima categoria e sa ben riconoscere esemplari di altre categorie. Solo la nostra specie, però, è capace di non fermarsi a questo dato bruto e andare oltre, riconoscendo, insieme alla nostra unicìtà, anche la nostra sottostante universale appartenenza. Dico "riconoscendo" perché questa non è cosa che si possa "imparare", e abbiamo visto (con gli esempi dell'omento e del golgi) che il bambino non aspetta di apprendere la genetica e la teoria dell'evoluzione per individuare correttamente l'affinità profonda tra noi e gli altri animali. Quindi, questa intuizione deve essere parte del patrimonio innato della nostra specie. Qui il "modello" manca totalmente, in quanto ci risulta che gli altri animali riconoscano, al più, gli stretti parenti, i partner sessuali, le specie-cibo e le specie-pericolo. Da dove ci proviene, allora, questa capacità?

Conosco due sole risposte logicamente possibili: o una sorta di rimembranza platonica da esistenze precedenti, o una sorta di cognizione diretta di una comunanza biologica, dovuta al vasto complesso di proprietà che condividiamo con le altre specie. Nessuna di queste due spiegazioni mi pare accettabile - la prima è assurda e la seconda mi sembra indistinguibile dall'idea della nostra specie come "antologia" del vivente -, ma non ne ho una terza. Ogni epoca, ogni cultura, tollera contraddizioni a proposito del tema perenne uomo/animale. E quella che ho appena indicato è, appunto, la speciale contraddizione tollerata dalla cultura scientifica della nostra epoca.



Tratto da: Piattelli Palmarini M. I linguaggi della Scienza, Mondadori 2003 [pp.97-108]

 

 
 Webmaster: Roberto Onuspi  Redazione: Scienza & Divulgazione